LA BATTAGLIA DI CECINA
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Era agosto inoltrato del 1944, mia nonna era stata sfollata, ed era andata ad abitare da una sua zia. Mia nonna stava a Castelfranco di sotto (PI), e aveva una casa proprio sul fiume, sua zia, invece, ne aveva una più in collina, ma sempre nelle vicinanza dell’Arno. Un giorno in agosto, i soldati austriaci, che non erano SS, perquisirono la casa di questa zia, e ordinarono alle donne di casa di preparare una cena per un po’ di ufficiali e servirla. Mia nonna aveva 14 anni, suo padre le aveva dato il permesso di servire a questi ufficiali , e quella sera appunto servì agli ufficiali tedeschi. Dopo la cena, alcuni soldati buttarono fuori i padroni di casa (mia nonna e i suoi parenti) e fecero una riunione. Nessuno della mia famiglia sapeva che cosa stavano dicendo gli austriaci, anche perché parlavano tedesco, ma dopo quel giorno ci fu la ritirata dei tedeschi dall’Arno; molto probabilmente la riunione dopo la cena era servita a decidere se ritirarsi o affrontare l’avanzata americana. Quando mia nonna era in casa da sua zia, gli uomini di casa (suo fratello, suo padre, il nonno, lo zio ecc.) erano nel bosco, perché se un tedesco o un italiano trovava uomini che non si erano presentati alla leva obbligatoria gli uccideva; quindi gli uomini della famiglia si nascondevano nel bosco, dormivano lì, e ogni giorno le donne della famiglia portavano loro cibo, panni, coperte, e stavano con loro a fargli compagnia. Nel bosco, gli uomini, incontrarono anche due austriaci soldati, il cuoco e un altro soldato, che non gli denunciarono per paura che fossero partigiani, ma siccome i due soldati tornavano spesso nel bosco per cercare cibo, ci fecero amicizia e trascorrevano alcuno delle lunghe giornate con loro. A Castelfranco ci furono le selezioni per la leva (come in ogni altro paese), due ragazzi di 18-19 anni, che si presentarono alla visita ma non poi alla leva per partire al fronte, furono fucilati nel centro del paese; questi due ragazzi erano ex compagni di scuola di mio nonno. Questo accadde anche a Firenze, dove furono fucilati molti ragazzi. Chi li fucilò erano proprio i ragazzi loro coetanei che si erano arruolati da poco. Mio nonno non andò in guerra perché lavorava già come ferroviere a Firenze, e vide molti bombardamenti delle stazioni laggiù.

MIO NONNO di Lari Enrico 

Il mio nonno paterno era nato nel 1912; studiò medicina e chirurgia e prima di laurearsi fece il corso allievi ufficiali di complemento . Nel giugno del 1940 partì per il fronte occidentale ( guerra con la Francia ) come sottotenente di fanteria. Il giorno della partenza per il fronte si laureò in medicina all' università di Pisa. Poco più di tre mesi dopo la partenza tornò a casa smobilitato; fu allora che chiese il trasferimento dalla fanteria alla sanità . Nel giugno 1942 fu di nuovo chiamato alle armi come sottotenente medico della sanità militare italiana ; nel settembre dello stesso anno partì per la Russia, dove il contingente italiano era stato dispiegato sul Don . Dopo vari tentativi nel dicembre del 1942 (offensiva di Natale ) i russi sfondarono le linee dei contingenti italiani e rumeni, obbligandoli ad una drammatica ritirata nell' immensa steppa sovietica . Nonostante gli scarsissimi mezzi , il freddo dell' inverno russo e l'incalzare delle truppe sovietiche, gli italiani e fra questi il mio nonno , riuscirono a sfondare la sacca preparata dai russi, battendo questi ultimi nella battaglia di Navo Calitwa . In quei giorni drammatici l' ospedale da campo in cui militava il mio nonno fu uno dei pochi centri sicuri per i soldati italiani e non , perché venivano curati i feriti e si distribuivano quei pochi di viveri che c' erano. Una cosa per cui il mio nonno andava molto fiero era che nonostante tutte le peripezie l' ospedale rientrò in patria con tutte le attrezzature mediche avute in dotazione alla partenza. Dopo qualche mese di contumacia ( periodo in cui i soldati vengono rifocillati e curati) il mio nonno tornò a casa dove poté rimanere per qualche mese fino all' 8 settembre del '43. Pochi giorni dopo l' armistizio fu catturato durante un rastrellamento dalle truppe tedesche di occupazione. Deportato in Germania visse per un periodo in un campo di concentramento per prigionieri italiani e poi come medico alla dipendenza della sanità militare tedesca. Fu il suo colonnello medico tedesco, responsabile dell' ospedale civile di Lipsia dove il mio nonno fu portato a lavorare , che resosi conto dell' imminente crollo della Germania lo aiutò a fuggire, fornendogli documenti falsi e prestandogli pochi marchi. Con mezzi di fortuna riuscì a tornare in Italia , dove tuttavia dovette fermarsi ancora per diversi mesi a Venezia prima di poter tornare a casa, in Toscana, a guerra ormai finita.

LETTERE DI CONDANNATI 

Questa testimonianza è una lettera di un condannato a morte della Resistenza Italiana. Per altre testimonianze potete andare sul sito www.resistenzaitaliana.it.
 Lettera di Paolo Braccini (Verdi) Di anni 36 - docente universitario - nato a Canepina (Víterbo) il 16 maggio 1907 -- Incaricato della cattedra di zootecnia generale e speciale all'università di Torino, specializzato nelle ricerche sulla fecondazione artificiale degli animali presso l'Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte e della Liguria - nel 1931 allontanato dal corso allievi ufficiali per professione di idee antifasciste - all'indomani dell'8 settembre 1943 abbandona ogni attività privata ed entra nel movimento clandestino di Torino - è designato a far parte del I° Comitato Militare Regionale Piemontese quale rappresentante dei Partito d'Azione - pur essendo braccato dalla polizia fascista, per quattro mesi dirige l'organizzazione delle formazioni GL -. Arrestato il 31 marzo 1944 da elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani di Torino, mentre partecipa ad una riunione del CMRP nella sacrestia di San Giovanni in Torino -. Processato nei giorni 2-3 aprile 1944, insieme ai membri del CMRP, dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato -. Fucilato il 5 aprile 1944 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, Con Franco Baibís ed altri sei membri del CMRP. - Medaglia d'Oro al Valor Militare. 3 aprile 1944 Gianna, figlia mia adorata, è la prima ed ultima lettera che ti scrivo e scrivo a te per prima, in queste ultime ore, perché so che seguito a vivere in te. Sarò fucilato all'alba per un ideale, per una fede che tu, mia figlia, un giorno capirai appieno. Non piangere mai per la mia mancanza, come non ho mai pianto io: il tuo Babbo non morrà mai. Egli ti guarderà, ti proteggerà ugualmente: ti vorrà sempre tutto l'infinito bene che ti vuole ora e che ti ha sempre voluto fin da quando ti sentì vivere nelle viscere di tua Madre. So di non morire, anche perché la tua Mamma sarà per te anche il tuo Babbo: quel tuo Babbo al quale vuoi tanto bene, quel tuo Babbo che vuoi tutto tuo, solo per te e del quale sei tanto gelosa. Riversa su tua Madre tutto il bene che vuoi a lui: ella ti vorrà anche tutto il mio bene, ti curerà anche per me, ti coprirà dei miei baci e delle mie tenerezze. Sapessi quante cose vorrei dirti ma mentre scrivo il mio pensiero corre, galoppa nel tempo futuro che per te sarà, deve essere felice. Ma non importa che io ti dica tutto ora, te lo dirò sempre, di volta in volta, colla bocca di tua Madre nel cui cuore entrerà la mia anima intera, quando lascerà il mio cuore. Tua Madre resti sempre per te al di sopra di tutto. Vai sempre a fronte alta per la morte di tuo Padre.

Lettera di Lorenzo Viale Di anni 27 - ingegnere alla FIAT di Torino - nato a Torino il 25 dicembre 1917 -. Addetto militare della squadra "Diavolo Rosso", poi ufficiale di collegamento dell'organizzazione "Giovane Piemonte" - costretto a lasciare Torino, si unisce alle formazioni operanti nel Canavesano -. Catturato l'8 dicembre 1944 a Torino, nella propria abitazione, in seguito a delazione, per opera di elementi delle Brigate Nere, essendo sceso dalla montagna nel tentativo di salvare alcuni suoi compagni -. Processato l'8 febbraio 1945, dal Tribunale Co:Gu: (Contro Guerriglia) di Torino, perché ritenuto responsabile dell'uccisione del prefetto fascista Manganiello -. Fucilato l'11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Alfonso Gindro ed altri tre partigiani. Torino, 9 febbraio 1945 Carissimi, una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. Il mio dolore nel lasciarvi è il pensiero che la vostra vita è spezzata, voi che avete fatti tanti sacrifici per me, li vedete ad un tratto frustrati da un iniquo destino. Coraggio! Non potrò più essere il bastone dei vostri ultimi anni ma dal cielo pregherò perché Iddio vi protegga e vi sorregga nel rimanente cammino terreno. La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. Bisogna avere pazienza, la giustizia degli uomini, ahimè, troppo severa, ha voluto così. Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d'Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro. Dunque, non addio, ma arrivederci in una vita migliore. Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene. Un caro bacio ed abbraccio Renzo.

 

La mia mamma mi ha raccontato che il suo babbo che sarebbe mio nonno di nome Vincenzo si arruolò nei carabinieri a 17 anni, negli anni'40, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale si offrì volontario. Fu inviato in Albania e nel 42 durante un combattimento fu ferito lievemente alla testa. Lo portarono all' ospedale dove venne curato e quando era in via di guarigione lo rimandarono a casa. Fu congedato dall'arma dei carabinieri e dopo ricevette una medaglia d'oro al valore militare e prendeva una pensione come invalido di guerra.